Puntata più realista del re, verrebbe da definire quella che state per leggere, essendone il copione fra i nostri più classici: generosa carrellata di dischi (dodici), progredendo per organici crescenti, spesso atipici. Partiamo quindi dal duo, con un protagonista quanto mai familiare di queste aree, il flautista friulano Massimo De Mattia, che nel live Blue Fire (Klopotec) si abbina al pianista Giorgio Pacorig, suo conterraneo, per una galoppata di quasi tre quarti d’ora senza soluzione di continuità in cui i due danno vita a uno scambio ora fitto, ora più distillato, prendendo a turno in mano le redini della performance, pur nel prevalere del dialogo a due voci.
Un’altra coppia, giovane, formata dal clarinettista trevigiano Alberto Collodel e dal bassista modenese Simone Di Benedetto, è al centro di DST – Il sistema periodico (Aut), album di estrema eleganza e aplomb, a cui non fa peraltro difetto la capacità di saltare ogni tanto fuori registro, con esiti dialettici degni di nota. Un’accoppiata da tener d’occhio. Non altrettanto riuscito appare il terzo e ultimo album in duo di cui ci occupiamo, Live at Španski Borci (Leo), firmato dal trombonista siciliano (ma da tempo trapiantato in Germania) Sebi Tramontana e dal polistrumentista tedesco (qui clarinetti e sax alto) Frank Gratkowski, due veterani che non si discostano da una pratica di improvvisazione senza rete ormai trita e ritrita, per quanto, nello specifico, non priva di spunti interessanti, favoriti anche dalla brevità dei brani (quindici).
Salendo di un gradino, eccoci ai trii, anch’essi tre. Il primo si deve al trombettista-filosofo veneziano Massimo Donà (foto in alto), una vita a studiare Miles Davis e una discografia fin troppo esigua, oggi rimpinguata da Il santo che vola (Caligola), album originale e un po’ bizzarro in trio con sax e percussioni (più ninnoli vari, nelle mani di tutti) ispirato a San Giuseppe da Copertino (sic!), le cui gesta sono narrate in clima semiserio (ci entra pure Carmelo Bene) nel corso del cd. Che ha, di conseguenza, alti e bassi e una fisionomia più unica che rara. Meriterebbe anche solo per questo.
Strano trio pure I giganti della montagna, sax tenore, piano e violoncello, al centro di Io sono tre (Improvvisatore Involontario), che anche solo il titolo non è male, come singolarità. L’album, alla fine, è un po’ discontinuo, a tratti un po’ rigido, ingessato, ma nel complesso apprezzabile per il taglio sperimentale, la ricerca costante e certi picchi degni di nota. Con un contrabbasso – quello della leader, la romana Federica Michisanti (foto qui sopra) – al posto del violoncello, e il tenore affiancato da oboe, corno inglese e clarone (tutti nelle abili mani di Matt Renzi), eccoci quindi a Isk (Filibusta), ispirato ai trii drumsless di Jimmy Giuffre. L’humus è quello, specie nei brani al tenore, dal timbro scuro e vagamente démodé, e pur senza particolari salti in avanti tutto procede al meglio.
E veniamo ai quartetti, quattro, inframezzati da un sestetto. Quello protagonista di Moonlanding (Tuk) è guidato da un altro bassista, lui però di lungo cabotaggio, Paolino Dalla Porta, per un cd alquanto controverso, fra episodi di grana piuttosto grossa e altri decisamente più ispirati. Sax tenore, chitarra elettrica e batteria gli fanno da cornice, sfoggiando ottimo amalgama e un bel suono d’assieme, per un disco solido non esente, come detto, da qualche eccesso di misura e qualche ovvietà, il che non si può dire di Double Cut (UR), dove i sax sono due, Tino Tracanna e Massimiliano Milesi (soprano, alto e tenore, in tutto, più melodica, ecc.), oltre a contrabbasso, Giulio Corini, e batteria, Filippo Sala, tutti pariteticamente firmatari del cd, che ha grande energia, affonda le sue radici in un post-bop spinto (nel senso di avanzato), fra impasti tellurici di marca (anche) R&B e Ayler (ma qua e là anche Coltrane), come spettro estremo. Detto così parrebbe un lavoro derivativo, ciò che non è, perché la carica e il suono d’insieme hanno forte identità.
Una forza non indifferente sfoggia da subito anche Molester sMiles (Milk), di cui sono parte ancora Milesi e Sala, più Achille Succi, sax alto e clarone, Giancarlo Tossani, tastiere, Enrico Merlin, chitarra, e Giacomo Papetti, basso (foto sotto). Il referente del cd, su indirizzo di Merlin (che ne è un esegeta), è il Miles Davis post-svolta elettrica, senza dimenticare i gruppi ad esso affini, americani quanto inglesi (Soft Machine seconda maniera, per esempio). Il risultato è un cd di notevole impatto, magari a volte un po’ sovraesposto, ma comunque di bella energia e bella coralità.
Torniamo ai quartetti e zoomiamo sul trombone, new entry di questa rapida carrellata. Due i dischi, in realtà di registro alquanto diverso. Il primo vede infatti il trombone al centro della scena; lo si deve al siciliano Tony Cattano, notevole talento già una quindicina d’anni fa, che in Naca (Aut) si abbina a violino (il grande Emanuele Parrini), basso e batteria per confezionare un album di grande valore, con un suono molto preciso che il violino (qua e là la viola) irrora di venature country, in un impasto bellissimo, di grande fascino e ricchezza. Diverso il caso di Light (Albòre), in cui già il titolo ci dice quanto solidità e pienezza lascino il posto a un deambulare ben più astratto, parsimonioso, non di rado intriso di umori iterativo-minimalistici. Il trombone è quello, eccelso, di Gianluca Petrella, ma la paternità del cd è del romano Rossano Baldini, il cui pianoforte, massicciamente calato in coltri elettroniche peraltro mai invadenti, imperversa, con risultati convincenti a singhiozzo, per quanto, del totale, si apprezzino il rigore, la coerenza, lo sguardo non banale.
E chiudiamo col cd più felice del lotto, Prossime Trascendenze (Amirani), inciso in quintetto (Cinque Multipli, 2014) e sestetto (Due Sestetti, 2015) privilegiando i fiati con intenti squisitamente cameristici. Ne è al centro il sax soprano di Gianni Mimmo, mentre tutto il resto cambia fra i due organici: nel totale corni inglese, francese e di bassetto, tromba in do, trombone, viola, violino, contrabbasso e percussioni. Il risultato è un caleidoscopio di situazioni, soprattutto timbriche, di estremo fascino ed eleganza, l’ennesimo grande disco del sopranista pavese, evidentemente troppo raffinato, prezioso, per ottenere l’apprezzamento che meriterebbe. E che per buona sorte gli è tributato all’estero.