Team at Work

by: Mario Mariotti

Feb 2021

MUSICISTI E PENSATORI ITALIANI: GIANNI MIMMO, UN COSMOPOLITA

Iniziamo una serie di interviste ad artisti attivi nel mondo della ricerca musicale contemporanea. Musicisti e pensatori italiani che non vedono la musica come mero intrattenimento o merce di consumo, ma come un linguaggio in continua evoluzione che ci porti a riflettere più per i dubbi che solleva che per le soluzioni che offre

Gianni Mimmo, musicista, artigiano e produttore discografico con una forte propensione al cosmopolitismo, si racconta rispondendo ad alcune domande sul proprio percorso artistico e sul proprio concetto di fare musica oggi. È possibile acquistare e ascoltare gli eccellenti lavori discografici registrati da Gianni Mimmo e prodotti da Amirani Records collegandosi al sito: https://www.amiranirecords.com/contacts

1. Gianni potresti raccontare brevemente ai lettori il tuo percorso artistico?

Molteplice nelle applicazioni, unitario nelle radici. Ho recentemente riconsiderato quanto questo percorso sia ancora profondamente ancorato alle radici che lo hanno generato. La mia impressione è che, avendo attraversato la temperie degli anni ‘70 e ’80 del secolo scorso, la formazione e il suo divenire siano profondamente informati dalla pluralità di fonti di ispirazione che hanno colorato quei tempi. La musica e l’esperienza creativa in genere erano intese come una possibilità sublimativa. Molte intersezioni fra ambiti: teatro,rapporto musica-testo, improvvisazione e poesia, arte visiva e danza.
Il tutto innestato sull’irruento contributo che il jazz andava assumendo nelle sue derivazioni più spericolate, della musica contemporanea e del suo rapporto con la dimensione sociale. Categorie altissime delle quali oggi parliamo in modo preminentemente antologico e documentale.
Era una musica forse più cosciente del contesto storico e l’omologazione successiva ancora non ben visibile all’orizzonte.
Ho lavorato a lungo sul rapporto musica-testo, musica-immagine e credo che questo abbia inesorabilmente segnato anche la mia parte più squisitamente musicale. Nel corso degli anni, e in particolare nella relazione con la scena internazionale della improvvisazione, ho intersecato molte esperienze di differente derivazione, ma non sono un eclettico.

2. Chi sono gli artisti, in senso lato, che maggiormente ti hanno influenzato e allo stesso tempo come hai sviluppato la tua ricerca verso un linguaggio personale?

Ho un pantheon piuttosto ampio cui guardo, impossibile menzionare tutti, pittori come De Chirico e Mondrian, come Bacon o Scialoja hanno enormemente influenzato la mia musica. Il rapporto formale fra gli elementi sonori ha molto a che fare con l’oggettivazione che possiamo osservare in un dipinto o in una scultura. Le mie influenze più propriamente musicali sono rintracciabili in Steve Lacy, Roscoe Mitchell, Anthony Braxton, ma ho un debito “estetico” verso Alban Berg, Anton Webern e quell’area viennese. Queste influenze sono per me egualmente importanti ed è spesso nell’accostamento di elementi distanti che trovo una prospettiva interessante.
La mia improvvisazione, per esempio, ha preso a manifestare un carattere compositivo. Cerco di mantenere uno sguardo particolare, ma anche di non perdere una visione più globale. Dal punto di vista di rapporto con lo strumento sax soprano, l’evoluzione di un segno originale è proprio legata a questa molteplicità di scintille che la animano. Non so quanto questo sia personale, ma certamente è quello cui mi è naturale tendere.

3. Sei ideatore di numerosi progetti multimediali: qual è il rapporto fra la tua musica con le altre arti? Su quale piano e in che modo avviene il tuo confronto con un’opera visuale piuttosto che un testo scritto?

Il rapporto è strettissimo sul piano ispirativo e sul piano progettuale. Ispirativo perché, per quanto mi riguarda, il livello formale in, per esempio, pittura e scultura possiede una fortissima relazione con la composizione e con l’improvvisazione. Tendo a pensare la musica come luogo, come dislocazione degli elementi, il materiale sonoro, nello spazio. Vi sono gradi di distribuzione dei pesi drammatici, significativi, di colori timbrici che articolano in un brano musicale così come elementi stilistici, toni e pigmenti, figure e prospettive in un dipinto. In un festival lo scorso anno ho avuto occasione di suonare accompagnando un danzatore. La commissione era l’interpretazione di uno spazio, all’interno di un piccolo museo, nel quale era ospitata una scultura piuttosto grande di un artista giapponese. Nella mia improvvisazione, che a sua volta era sollecitata da improvvisi cambi di prospettiva provocati dalla gestualità corporea del danzatore, lo sviluppo delle linee musicali, la loro geometria direi, era molto influenzato dalla pulizia, dal nitore, di certe parti di quella scultura. Qualcosa di pesante sostenuto da qualcosa di leggerissimo, la danza fluida all’interno di uno spazio chiuso. Ne è nata una piccola suite, nella quale, pur nell’approccio astratto, è come se indugiassi in un lirismo scarno, ma narrativo per suggerimenti, accenni.
Ho ripetuto in diverse occasioni che un lavoro artistico sussiste di per sé. Un dipinto è un dipinto, una poesia è una poesia. La musica non necessita di poesia e la poesia non necessita di musica. Se sul piano progettuale si accostano musica e poesia, per esempio, entrambi le componenti devono cedere qualcosa, altrimenti si ottengono degli sterili accostamenti, didascalici. Non necessari, ecco. Ma quel nuovo terreno è fatto di molti sentieri, alcuni importanti altri diversivi. Il testo poetico contiene una speech melody, una linea sonora che è suggestiva in molti modi: per senso, per fonemi, per lirismi, per attriti sillabici. Dal punto di vista strumentale si attuano reazioni, fondali, anticipi, ripetizioni e cadenze. Le parole diventano un po’ musica e la musica diventa più parola. Il risultato offre spesso una prospettiva inedita, uno sguardo laterale e rivelatore. Un mio maestro fece un’operazione interessante lavorando con un testo tratto da una guida turistica. La musica aveva conferito a quelle parole un’inesorabilità che a una semplice lettura non potevano avere.
Ho un progetto che porto in giro da un po’: Seven Paintings. In sostanza suono sette improvvisazioni mentre alle mie spalle vengono proiettati sette dipinti in successione. Gli autori di questi quadri sono molto diversi fra loro per epoca e stile. Accade sempre, e a tutte le latitudini, che l’audience attraversi quei dipinti in un modo nuovo, fresco, inaspettato. Piero Della Francesca e Francis Bacon sono nuovi, la musica offre una finestra nuova, un altro sguardo. La parte magica consiste nel fatto che la stessa musica suona in modo nuovo, come se l’immagine ne informasse il percorso.
Il rapporto è strettissimo sul piano ispirativo e sul piano progettuale. Ispirativo perché, per quanto mi riguarda, il livello formale in, per esempio, pittura e scultura possiede una fortissima relazione con la composizione e con l’improvvisazione. Tendo a pensare la musica come luogo, come dislocazione degli elementi, il materiale sonoro, nello spazio. Vi sono gradi di distribuzione dei pesi drammatici, significativi, di colori timbrici che articolano in un brano musicale così come elementi stilistici, toni e pigmenti, figure e prospettive in un dipinto. In un festival lo scorso anno ho avuto occasione di suonare accompagnando un danzatore. La commissione era l’interpretazione di uno spazio, all’interno di un piccolo museo, nel quale era ospitata una scultura piuttosto grande di un artista giapponese. Nella mia improvvisazione, che a sua volta era sollecitata da improvvisi cambi di prospettiva provocati dalla gestualità corporea del danzatore, lo sviluppo delle linee musicali, la loro geometria direi, era molto influenzato dalla pulizia, dal nitore, di certe parti di quella scultura. Qualcosa di pesante sostenuto da qualcosa di leggerissimo, la danza fluida all’interno di uno spazio chiuso. Ne è nata una piccola suite, nella quale, pur nell’approccio astratto, è come se indugiassi in un lirismo scarno, ma narrativo per suggerimenti, accenni.
Ho ripetuto in diverse occasioni che un lavoro artistico sussiste di per sé. Un dipinto è un dipinto, una poesia è una poesia. La musica non necessita di poesia e la poesia non necessita di musica. Se sul piano progettuale si accostano musica e poesia, per esempio, entrambi le componenti devono cedere qualcosa, altrimenti si ottengono degli sterili accostamenti, didascalici. Non necessari, ecco. Ma quel nuovo terreno è fatto di molti sentieri, alcuni importanti altri diversivi. Il testo poetico contiene una speech melody, una linea sonora che è suggestiva in molti modi: per senso, per fonemi, per lirismi, per attriti sillabici. Dal punto di vista strumentale si attuano reazioni, fondali, anticipi, ripetizioni e cadenze. Le parole diventano un po’ musica e la musica diventa più parola. Il risultato offre spesso una prospettiva inedita, uno sguardo laterale e rivelatore. Un mio maestro fece un’operazione interessante lavorando con un testo tratto da una guida turistica. La musica aveva conferito a quelle parole un’inesorabilità che a una semplice lettura non potevano avere.
Ho un progetto che porto in giro da un po’: Seven Paintings. In sostanza suono sette improvvisazioni mentre alle mie spalle vengono proiettati sette dipinti in successione. Gli autori di questi quadri sono molto diversi fra loro per epoca e stile. Accade sempre, e a tutte le latitudini, che l’audience attraversi quei dipinti in un modo nuovo, fresco, inaspettato. Piero Della Francesca e Francis Bacon sono nuovi, la musica offre una finestra nuova, un altro sguardo. La parte magica consiste nel fatto che la stessa musica suona in modo nuovo, come se l’immagine ne informasse il percorso.

4. Parlaci della tua concezione di improvvisazione in musica.

Non faccio molta distinzione fra composizione e improvvisazione. Il tempo creativo è differente. Per me è sempre come perlustrare un luogo, espandere alcuni spazi, elementi costruttivi e decostruttivi, imprimere diversioni e aderire alla musica in un modo immediato. Nelle improvvisazioni più riuscite avviene una specie di transizione continua di significato, uno stretching formale e di senso, un’ineffabilità. L’improvvisazione è l’occasione di una fragranza. In quella di derivazione jazz il linguaggio ha radici evidenti, in quella più libera i piani sono molteplici e il linguaggio è sempre un ibrido. Il termine “composizione istantanea” è forse abusato, ma io improvviso compositivamente, diciamo che colgo l’occasione di avere uno sguardo particolare (reazione-azione) contemporaneamente a uno globale che tenga conto di un riferimento in qualche modo formale. Ecco allora che le forme del mio improvvisare decideranno (e saranno decise) da una narrazione che prende forma sul momento, ma in vista di un quadro complessivo. Il brano è una specie di sentiero da percorrere in parte scegliendo la direzione, in parte appartenendovi.

5. Assumi che l’errore possa essere un elemento generativo nel processo creativo?

Determinante. Personalmente ho bisogno di un certo numero di difetti per rendere al meglio. Thelonious Monk è la risposta alla domanda. Spesso l’errore è un nodo rivelatore. È necessario.

6. Cosa ti ha spinto a concentrare la tua attenzione sul saxofono soprano, rendendolo il tuo strumento (inteso come mezzo) comunicativo esclusivo?

Ho iniziato con il sax tenore da ragazzo, ma ho lavorato per molti anni al sax alto e baritono. Nel ‘77 assistetti a un concerto di Steve Lacy e mi colpì una certa inesorabilità del suo timbro. Già da allora, credo, compresi una specie di esclusività che il soprano ha. Per gran parte dei musicisti che lo suonano esso rappresenta un secondo, terzo strumento. In realtà è uno strumento con una serie di cose incompiute, i suoi gravi affondano nel cuore del tenore, le sue parti più acute sono come punte luminose. Timbricamente è infido, credo più mentale che fisico. Ormai ho una relazione con lui, certe giornate possono essere anche dure.
Ma possiede anche una buona complessità. Non credo lo si possa dominare, ho abbandonato l’idea da tempo. Ma la parte importante è senz’altro la relazione. Strumento piuttosto esigente.

7. Sei un artista che ha tenuto performance e inciso dischi molto spesso fuori dall’Italia, ci sono delle differenze fra la ricettività del pubblico e degli organizzatori di eventi fra il nostro Paese e altri luoghi? Se esistono tali differenze a cosa sono dovute a tuo avviso?

Tutti i luoghi sono particolari. La fruizione, in generale, si è molto trasformata, negli ultimi vent’anni almeno, ma è vero: ci sono ricettività diverse.
Il background culturale e naturalmente una programmazione avvertita attenta ai diversi ambiti determinano la qualità dell’ascolto. È bello, oltre che necessario, che un pubblico possa frequentare egualmente un corale di Bach e un quartetto di Anthony Braxton. Un pubblico giapponese per esempio sarebbe attentissimo. Forse da noi coglieremmo l’occasione per una polemica. Ci sono ragioni anche politiche, in Italia la débâcle culturale è stata massiccia. La curiosità si è fatta effimera, un po’ di omologazione ha fatto il resto. È successo ovunque, mi si dirà, tuttavia l’attenzione e le domande che si trovano in Nord Europa sono qualitativamente più alte. È innegabile.

8. Nel 2006 hai fondato l’etichetta discografica Amirani Records. Cosa ti ha spinto in questa direzione e qual è stata la tua scelta editoriale?

Tutte le figure intermedie: produttore, editore, direttore artistico sono scomparse e il musicista si occupa di tutto, tutto questo da un po’. Ho constatato che ai margini della scena ci sono molte intelligenze. Girando un po’ ho incontrato diverse realtà creative e poco prima di intraprendere l’avventura della label, volevo documentare alcuni progetti attivi al tempo.
L’attenzione all’area dell’improvvisazione non è stata esclusiva, il discrimine è sempre stata la sincerità dei lavori. Nel tempo ho aggiustato il tiro verso una cifra editoriale un po’ più rigorosa. Non nascondo sia faticoso e le difficoltà sono tante. Inoltre, la musica ha preso a girare in formati molto liquidi. Credo che alcune cose vadano documentate. Ho aperto negli ultimi anni una linea di lavori monografici nella collana di Contemporanea. C’è una parte di follia, naturalmente, dovuta al fatto che il lavoro è totalizzante per una sola persona.

9. All’interno del tuo catalogo qual è la registrazione che più ti rappresenta?

Non saprei dire. Sono legato in modo diverso a tutti lavori. Alcuni sono legati a periodi molto importanti e tendo a vederli considerando il contesto in cui sono stati realizzati. Alcuni sono diventati progetti consolidati e meno episodici.

10. Come riesci a far convivere la tua forte connotazione autoriale con un’altrettanta marcata propensione a collaborare a progetti altrui?

Ci sono vari tipi di collaborazione. Per me, anche qui, il discrimine è la sincerità. Talvolta certe collaborazioni sono strette, ma spesso è fuori dalla comfort zone che si dà il meglio.

11. A tuo avviso questo periodo di crisi, durante e dopo l’emergenza sanitaria, può offrire anche delle opportunità agli artisti?

Non vorrei trascurare l’aspetto ammonitorio di questo tempo. L’opportunità per me (magra consolazione, mi si dirà, mentre l’agenda è completamente vaporizzata in una serie di sospensioni, ingaggi rimandati a data da destinarsi, impossibilità di sviluppare progetti, ecc.) è stato osservare anche quello che si è fatto. Dovevo anche rallentare un po’, avverto una tendenza a sovraprodurre, ma forse è anche un tempo per considerare, un tempo di confronto. Di ascolto, anche. Davvero è necessario alzare lo sguardo, questa è una complessità che richiede concentrazione e flessibilità. Certamente è dura, ma non credo siamo qui a fare cose facili.

12. Nel 2019 hai registrato un disco in duo Rumpus Room con un geniale inventore di moderni “intonarumori”, per coincidenza di professione odontoiatra. Vuoi descrivere in alcune parole come è nato quel progetto e le sue caratteristiche?

Luca Collivasone è un artista molto concreto, un assemblatore curiosissimo, e ha inventato questo cacophonator trasformando una vecchia macchina per cucire in un generatore di suoni. Abbiamo stabilito una cadenza settimanale di prove, abbiamo parlato molto, veniamo da due mondi diversi. Suonare interagendo con i rumori è una pratica molto stimolante perché pone questioni estetiche interessanti. Ho lavorato in altre occasioni con suoni ‘altri”, sempre con artisti derivanti da ambiti distanti. Anche in questo caso le derivazioni stilistiche così differenti hanno generato un lavoro molto fresco, per certi versi sorprendente. Ne esce un suono quasi teatrale, nel quale le linee narrative si inseguono e certi timbri concreti sembrano dare una profondità, una specie di costellazione. Un metalinguaggio, forse.

13. Quali sono i tuoi nuovi progetti in vista?

Beh, il primo progetto è riprendere da dove eravamo rimasti e constatare se ciò a cui si stava lavorando merita ancora attenzione. Non so davvero quando ripartirà l’attività concertistica. Il Sestetto Internazionale, il duo con Alison Blunt, il trio con Satoko Fujii e Joe Fonda, il trio Clairvoyance avevano una serie di date in Europa che sono state rimandate. Ma è difficilissimo guardare avanti, i tempi permangono opachi. Da qualche tempo sto pensando a un nuovo album in solo, forse sarebbe un lavoro aderente a questa complessità.