Percorsi Musicali

by: Ettore Garzia

Apr 2025

Gianni Mimmo: creatività senza confini

Se dovessimo attribuire paternità o influenze sulla libera improvvisazione, non potremmo certamente riferirci ad una sola fonte. Un'analisi profonda dei legami della storia, unita a delle interpretazioni non fallaci e supportate da una logica, ci conducono a qualcosa di più di quanto rivendicato dai musicisti e studiosi del jazz. Se gli sviluppi della musica afroamericana sono importanti per inquadrare una tendenza di base dei musicisti-improvvisatori, è anche necessario ammettere che risorse fondamentali sono arrivate dall'arte europea del Novecento, dai movimenti aleatori creati nel mondo della composizione, dall'elevazione a potenza della performance e dei networks interdisciplinari (Fluxus, spettacoli dell'happening, futuristi, dadaisti, surrealisti, etc.). Soprattutto le prime generazioni di improvvisatori liberi (i musicisti nati intorno alla seconda guerra mondiale e quelli nati tra la metà e la fine degli anni cinquanta del secolo scorso) hanno incarnato queste risorse nel loro DNA, unendole ad una pratica di condivisione sociale e politica. A differenza di quanto si può pensare, gli improvvisatori liberi hanno anche materializzato le consuetudini di un'arte musicale autonoma fatta di ore e ore di pratica giornaliera, un modus operandi finalizzato all'espansione delle competenze sugli strumenti: tra questi musicisti, uno bravissimo che vi regala tutte queste qualità appena accennate è lo specialista del sax soprano Gianni Mimmo (1957).

Di Mimmo, su queste pagine, ne abbiamo parlato sempre con ammirazione e in passato Donatello Tateo ci regalò anche un'intervista quando la rivista Percorsi Musicali esisteva nella forma di blog (puoi leggere liberamente l'intervista qui); a proposito di Gianni, devo rimarcare non solo l'importanza e il valore del musicista nell'ambito di ciò che è stata la storia della libera improvvisazione e del jazz in Italia, ma ribadire anche la nostra amicizia, bella, sincera, allegra e sempre piena di discussioni e spunti progettuali costruttivi; tante telefonate, discorsi sull'arte e sulla musica e una stima incondizionata reciproca acclarata nei nostri incontri personali. Sentivo da tempo il desiderio di voler estrapolare in scrittura un pò delle nostre conversazioni e penso che questo sia il momento migliore per farlo, poiché Gianni sta raggiungendo un culmine internazionale, ottenendo riconoscimenti all'estero che si aggiungono alla sua preziosa attività concertistica italiana; dopo aver accantonato l'esperienza di Amirani Records, l'etichetta discografica da lui gestita che ha pubblicato 75 CD ottemperando ad una dimensione contemporanea della musica, Gianni ha riflettuto sul suo modo di essere musicista e senza fermarsi mai ha cominciato a dedicare il suo tempo all'arte del vivere, qualcosa che ricorda un pò per analogia il surrealismo di Magritte e le motivazioni nascoste nel suo quadro L'arte di vivere, dove si nota una divisione funzionale tra corpo (un abito maschile con giacca e cravatta rossa) e testa (una grande palla con piccoli lineamenti di un viso al centro), un modo per evidenziare come sia importante la riflessione, l'esperienza e una connessione surreale che vada oltre l'ottica del mondo per ottenere un equilibrio vero. La ricerca di Gianni è la ricerca di una luce nell'oscurità che attanaglia oggi la prospettiva umana intelligente.

Prima dell'intervista, vorrei spendere due parole di apprezzamento sull'ultima produzione discografica di Gianni, ossia Say When, un duetto con Ove Volquartz (a clarinetto basso, contrabbasso e flauto) pubblicato per Aut Records qualche mese fa; è al solito, una testimonianza del valore artistico del sassofonista nonché brulica di quella bellissima filosofia interpretativa che si stabilisce in tutta la sua musica. Say when è improvvisazione libera fluida, dove l'istinto real time dei musicisti si trasferisce con opportuno sviluppo sugli strumenti: i due musicisti lanciano dettagli da decifrare nello spazio dell'ascolto, linee melodiche 'gentili' (la title track o anche Athen Amidst the Olive Trees), punteggiature fantasiose (Stay Reluctant) o anche gangli armonici (More than One Threshold ma soprattutto Distant Peaks), a volte sovrapponendosi altre volte rendendosi complementari. Le liner notes di Andrea Dani e la cover CD di Andrea Montanari cercano di oggettivare una relazione musicale che sta tra Jean Dubuffet e le tecniche di collage. Dubuffet è uno dei pionieri dimenticati della free improvisation e basterebbe andare a rovistare nella sua musica (che era comunque un'appendice della sua personalità pittorica e scultorea) per capire che l'Art Brut nei primi anni sessanta del Novecento era già una forma di arte spontanea e terribilmente matura che doveva fare i conti con le cognizioni accademiche per via di una considerazione dell'arte accessibile a tutti (soprattutto il riconoscimento di una superiorità creativa dei bambini, dei portatori di deficit mentali o clienti di cliniche psichiatriche); tuttavia in Say When se è vero che verifichiamo un'eguale spontaneità della musica è anche vero che non c'è aderenza alla musica caotica e rumorosa di Dubuffet e si esclude Distant Peaks, che a causa degli armonici rumorosi strappa delle somiglianze, si è comunque distanti da un automatismo delle posizioni musicali e più vicini ad una forma sonica prescrittiva che è il frutto delle qualità e delle sensibilità dei due musicisti.

Quanto a Montanari, poi, è evidente che la relazione che vuole essere instaurata con Say When è quella di due 'corpi' che fluiscono e perciò il disegno è scelto con oculatezza: il messaggio alla fine è chiaro perché la fluidità e il divenire quasi idilliaco della musica significa arrivare alla dimostrazione che esiste una saggezza aldilà degli eventi, la quale è indispensabile per affrontare le turbolenze del mondo, è qualcosa che unisce e si attesta in un'area di resilienza: Say When dona benessere all'ascolto, è una ricerca di luce che si scorge in un atteggiamento e un'effusione musicale, uno standard che può durare.

Ecco l'intervista.

EG: Ciao Gianni e complimenti a te e Ove per il bellissimo Say When. Parto da qui. Se non sbaglio questa è la terza registrazione dove suoni con Volquartz (le altre due sono Current Air e Cadenza del Crepuscolo) e mi chiedevo qual è la genesi di Say When?

GM: Ciao Ettore, grazie sempre per la tua attenzione e il tuo ascolto di questo Say When! Con Ove Volquartz esiste anche una pubblicazione per Amirani Records di Reciprocal Uncles, il cui nucleo originario era il mio duo con Gianni Lenoci, in questo caso in forma di quartetto con appunto Ove e Cristiano Calcagnile alle percussioni. Il titolo era: Glance and Many Avenues [amrn# 042]. Si tratta di un live all'Apex di Göttingen, la prima volta che incontravo Ove. Da allora la nostra collaborazione è stata intensissima, abbiamo suonato con Reciprocal Uncles in tutta Europa, ma anche con il quartetto con John Hughes al contrabbasso e Björn Lücker alla batteria, in festival di danza con il progetto Panji, in ensemble di fiati e in duo in diverse occasioni... Ci conosciamo da oltre 10 anni e davvero credo abbiamo fatto un sacco di cose insieme, inclusi stage nei conservatori, teatri, gallerie d'arte, chiese, persino negozi. Il progetto Cadenza del Crepuscolo, che contempla il lavoro insieme al contrabbasso di Hughes e l'incredibile church-organ di Peer Schlechta, ha poi dato un ulteriore impulso alla forma dialogica di timbri così distanti...

Tuttavia, non avevamo mai registrato un duo, forse lo praticavamo, ma non lo avevamo mai concepito con modalità compiute. Ove ha un'esperienza vastissima, ha suonato con nomi storici come Cecil Taylor, Günter Hampel... E poi è un musicista molto completo e versatile. Ci siamo resi conto di avere, in un certo senso, maturato delle affinità nel modo di procedere, una certa nuova attenzione verso la forma. Forse questo deriva da un'attenzione, piuttosto spiccata in entrambi, per la dinamica e i contrasti timbrici e per un'attitudine forse più narrativa, non saprei... Questi elementi risultano spesso più diluiti in ensemble più espansi, mentre emergono come protagonisti in formule rivelatorie come il duo. Nel tempo si è creata una specie di stanza sonora nella quale era molto facile far convergere le rispettive energie e ho pensato che fosse ora di documentarlo. Ci siamo presi tempo in studio, il suono era ottimo, non è stato difficile produrre un bel materiale. Nel riascolto è emerso un fil rouge, un percorso direi, sul quale abbiamo convenuto. Aut Records si è detta subito interessata al lavoro che poi ha visto la luce all'inizio dell'anno.

EG: Sax soprano e clarinetto basso/contrabbasso è una combinazione non frequente nelle registrazioni di free improvisation. A mia memoria ci sono i duetti di Parker/Rothenberg, Doneda/Rühl, Coxhill/Ward, Sjöström/ Gratkowski e poi ci sei tu in Explicit con Vinny Golia. E' qualcosa che sembra comunque appartenere agli specialisti del soprano ed ha certamente delle qualità timbriche implicite che lo avvicinano alla chamber music. Cosa ne pensi?

GM: La fascinazione per il clarinetto basso e in particolar modo per quello contrabbasso è storia antica per me. Sono strumenti che assommano estensione nel range e incredibile flessibilità timbrica. Rimangono per me in parte imprendibili per una certa natura ibrida nella qualità del tono che producono, conoscono il calore di un violoncello e le asperità di una fibrillazione, di micro-battimenti, di improvvise lacerazioni del suono. "Sussurri e grida", mi dico spesso. Sono timbriche che riescono ad avere un doppio ruolo: dialogico e di tessitura. Questo spiega anche il loro impiego in contesti cameristici (per il cl.basso penso a Webern e ai suoi meravigliosi lieder e per il cl.contrabbasso all'impiego nel soundtracking ad es.). Insomma, posseggono una forza tellurica con la quale mi piace avere a che fare, la distanza nel range mi costringe a procedere per associazioni insolite. È molto stimolante, specie si tiene acceso l'ascolto reciproco e con Ove questo avviene sempre. Inoltre, quando la palette a disposizione è molto ampia, è forse più naturale procedere con maggiore attenzione, con più accortezza forse, verso uno spontaneo impianto formale dell'improvvisazione. Sembra forse contraddittorio, ma emerge chiaramente un carattere compositivo in queste improvvisazioni.

EG: Nelle liner notes di Say When Andrea Dani ha menzionato il grande Jean Dubuffet, la cui musica è assolutamente straordinaria, soprattutto per quei tempi. Cosa pensi di Dubuffet, anche alla luce di alcune critiche che gli vengono rivolte proprio dagli improvvisatori riguardo ad una presunta automaticità dell'impulso prescritta dal francese?

GM: Ho affidato ad Andrea Dani, il quale ha gentilmente acconsentito, l'idea di scrivere un liner per questo album perché è un sensibile pensatore e possiede una capacità di lettura trasversale che fa appello a categorie spesso distanti, ma che insieme concorrono a offrire un risultato composito e ricco di insolite prospettive. Anche stavolta mi ha sorpreso, cogliendo nel segno, citando Dubuffet. (Ri)Conosco Dubuffet come artista completo, non sento di dividere il suo agire in differenti discipline: la pittura, le maschere, i disegni infantili, la musica, la scultura... Lo sento come una figura "intera" che racchiude nel suo fare una spinta creativa primordiale, qualcosa prima del pensiero. La cosa che a mio parere accomuna il processo di fruizione dell'opera di Dubuffet e questa musica è forse una specie di innocenza che pur da prospettive distanti si avverte, una fragranza che sta prima della (o forse eccede la) sua interpretazione per categorie. Sempre sono tuttavia individuabili linguaggi, provenienze, derivazioni. Credo sia inevitabile: siamo essere complessi, fatti di biblioteche interiori cui facciamo naturalmente riferimento. Ma c'è forse una postura, quasi visibile per quanto mi riguarda, che mi fa pensare a questa similitudine.

La posizione critica che considera l'automaticità dell'impulso un minus della musica di Dubuffet è comprensibile, ma parte forse da una posizione impropria. Mi torna alla mente una conversazione intorno a un filmato nel quale un uccellino zampettava curioso su una chitarra elettrica, sdraiata a terra e collegata ad un amplificatore. Potevamo obiettare al fatto che si trattasse di un'improvvisazione? Il richiamo della musica di Dubuffet sembra rivolgerci la domanda "Senti quante cose accadono nel suono prima della sua assegnazione a qualsiasi categoria? Al netto di qualsiasi sovrastruttura culturale?". È una domanda ancora interessante, direi. Anche se senz'altro legata a quel tempo e a quella temperie culturale. Assertiva allora, più confusamente percepita oggi, penso.

EG: Ci spieghi quando è nata la tua collaborazione con Andrea Montanari e cosa ti ha colpito della sua 'astrazione' profusa nel collage?

GM: Ho incontrato la prima volta Andrea Montanari, dopo un mio live al festival del cinema di Bergamo nel 2016 dove avevo portato un mio lavoro di live-soundtracking. Lui aveva appena collaborato con Gianni Lenoci in un altro progetto sulla relazione fra musica e immagine. Dopo la scomparsa di Gianni ci siamo risentiti in occasione di una serata dedicata al ricordo di questo bravissimo pianista e compositore con il quale ho condiviso un decennio di attività. Andrea aveva ritrovato dei disegni a pastello che aveva fatto e poi non usato per quel progetto con Gianni. Guardandoli insieme abbiamo pensato che contenessero una tenera cifra narrativa, allusiva e non priva di una certa malinconia. Il tratto mi ricordava Folon... e abbiamo individuato una successione e io ho pensato alla musica, un solo soprano sax. Il lavoro ha preso il titolo di "The Lost Frames" ed è stato presentato al teatro Radar di Monopoli nella serata appunto dedicata a Gianni e poi anche al festival Urticanti nel 2021. In quel caso i disegni astratti rimangono proiettati uno ad uno e ad ognuno di essi viene dedicato un brano suonato dal vivo.

Andrea ama molto il collage, il suo lavoro è piuttosto accurato e mi ricorda quello degli affichistes milanesi negli anni '60. Ma mentre in questi ultimi il senso sembra emergere da uno strappo, una lacerazione che fa emergere il segno di stratificazioni precedenti, nei collage di Andrea il tratto compositivo è più evidente, netto. Ne risulta un processo fruitivo più articolato, fatto di continue messe a fuoco, uno spostamento delle profondità che per me è molto stimolante e che sento molto vicino al mio modo di procedere nella pratica improvvisativa. Abbiamo presentato un lavoro al festival Osvaldo in Rovereto che è andato piuttosto bene nel 2022. Anche qui musica e immagine sono abbinate in una specie di lettura reciproca, quasi mai didascalica. In questo senso è anche interessante ricordare "Costellazioni Incidentali" che ho presentato a Fano Jazz nel 2021, una commissione del festival, in cui partitura grafica e mappe astratte preparate da Andrea sono diventate la mia solo performance. Questo collage che appare in copertina è parte di una sua serie intitolate ABSTRACT IN YOUR HOUSE e offre un buon indice di lettura della musica che si ascolta nell'album. Ci sono elementi che galleggiano e che chiamano la nostra attenzione in un processo di riconoscimento, ancora una specie di continua messa a fuoco, ecco. I titoli dei brani sono anche un po' così: fra gli altri si citano gli occhi di Atena (come viene chiamato il contrasto di luce causato dal vento tra la parte opaca e quella lucida delle foglie dell'olivo) [Athena Amidst The Olive Trees] oppure ci si riferisce al concetto di soglia [More than One Threshold]...

EG: Dove si dirige secondo te l'"astratto" nei tempi attuali? (riferito a tutte le arti).

GM: Davvero non so rispondere a questa domanda. I tempi sono così densi e confusi e il processo fruitivo così sollecitato che le valenze sono spesso imprevedibili. Alcuni richiami sembrano efficaci e tuttavia c'è uno smarrimento della comprensione. Non so, credo che nell'astratto risieda ancora un richiamo misterioso, che credo abbia attinenza con un certo appetito spirituale mai completamente perduto, un bisogno non sopito di catarsi. Forse leggera, direi, tuttavia presente. Penso a certi effetti di un segno assertivo e potente all'interno di un non luogo come una stazione della metropolitana, pensa a un'opera di Emilio Vedova... c'è qualcosa di inesplicabile ma estremamente presente in quel luogo... ancora oggi. L'astratto continua a chiamare e ad attraversare.

EG: Noi parliamo spesso della musica improvvisata sia di ieri che di oggi e ci riferiamo spesso ad un metodo di comportamento dell'improvvisatore, uno che deve introitare competenze, accettare i transiti e saper analizzare i cambiamenti, trasformare la tensione in spunti creativi, essere consapevole di una visione. Qual è lo sforzo che l'improvvisatore deve implementare e qual è il vantaggio da acquisire in una pratica quotidiana dello strumento?

GM: Collaboro con musicisti di ogni parte del mondo e noto che gli approcci, il percorso, persino la pratica ha aspetti e cammini molto personali forse dettati dalla formazione o forse dalle frequentazioni, non so. Per quanto mi riguarda sono con te d'accordo sul fatto di lavorare per possedere una visione d'insieme, una consapevolezza dei tempi e della misura da usare. Un senso della posizione, per usare una categoria di un maestro a me caro. Questo credo che abbia a che fare con il concetto di responsabilità, del sapere che con la tua musica consegni qualcosa. Diciamo, per essere brevi, voglio che l'improvvisazione prenda (e doni) il meglio da me. Lavoro per una qualità buona di ciò e di come faccio, ecco. Per ognuno questa soglia di qualità è differente, credo. Alcuni si affidano ciecamente alla propria spontaneità, altri ricercano un percorso attraverso la tecnica, altri da processi reattivi... Personalmente, il suono e la sua pratica su uno strumento arcigno ed ingrato come il sassofono soprano mi richiedono una sorta di dedizione talvolta severa. Ma mi rendo conto che la frequentazione assidua rende la relazione ricca e vera nelle sue contraddizioni. Una parte per me anche molto importante è rivestita dalla frequentazione di altre prospettive artistiche. A volte una mostra d'arte rappresenta per me un serbatoio ispirativo straordinario e di grande durata. Per rispondere più direttamente direi che l'impegno è dato dal rimanere aperti e curiosi, severi e attenti. Ma questo ha molto a che fare con il carattere di ognuno...

EG: Ho sempre pensato che la tua musica sia collocata in un perfetto assioma di elementi anche extramusicali: il surrealismo e l'arte inconsueta del primo novecento, l'area della performance, un tenero richiamo all'arte espressionista. Condividi questa mia idea? E se non è così puoi specificare i tuoi drivers extra-musicali?

GM: Ho spesso detto che la mia maggiore fonte ispirativa risiede nella pittura, nella scultura, nella fotografia anche... o nell'architettura. In generale direi che la forma o le forme in senso lato hanno per me un richiamo che risveglia la mia curiosità. Ma sono certo d'accordo con te circa la fascinazione del primo Novecento, le forze che si agitano a Vienna per esempio, Webern, Berg. Ma anche certa narrativa giapponese ad esempio.. Kawabata, certe volte penso che vorrei fare musica come lui ha scritto romanzi o la pittura di Casorati... anche lì una sospensione un incanto che vorrei avesse la mia musica... ma sono troppe per essere menzionate, queste fonti...

EG: Vorrei che per me e per i lettori di PM illustrassi le tue bellissime esperienze all'estero. Partirei da quella del SoundOut festival a Canberra dove sei stato partecipe di un festival dell'improvvisazione che pochissimi conoscono in Italia. Vorrei sapere che cosa ti ha dato questa esperienza e se hai potuto maturare un'idea sulla scena improvvisativa australiana?

GM: Davvero posso dire che l'esperienza al SoundOut è stata proficua sotto diversi aspetti. Ho conosciuto musicisti molto bravi, ho avuto scambi molto interessanti che penso frutteranno altre collaborazioni importanti, mi sono piaciuti moltissimo i giovani che ho trovato ottimisti e curiosi. Ho avuto una masterclass con loro e c'era una bellissima energia. Ho avuto modo anche modo di ascoltare e osservare intersezioni e comunicazioni diverse. Il direttore artistico del Festival Richard Johnson ha un'attenzione molto accurata e una spiccata propensione a favorire incontri e scambi artistici a molti livelli. Credo tornerò laggiù, stiamo pensando a una mia composizione per large ensemble per la prossima edizione. Mi sono molto piaciuti i musicisti francesi di Hubbub, ho suonato con alcuni di loro in diverse combinazioni. Mi è piaciuta moltissimo la cellista canadese ma ora residente a Melbourne, Peggy Lee. Credo proprio funzionerebbe molto bene suonare ancora con lei. Al SoundOut abbiamo avuto un sestetto con, fra gli altri, lei e Frederick Blondy al piano... davvero molto buono. Ho avuto uno splendido scambio con l'artista Locust Jones, ho interpretato in una parte del mio solo concert due suoi grandi dipinti e credo senz'altro che faremo qualcosa ancora insieme in futuro. Con Richard Johnson abbiamo anche fatto una camminata e registrato in una caverna in un parco nel quale la natura davvero ha una forza percepibile. E poi ho riscontrato una ottima curiosità ed attenzione nell'audience, una certa freschezza delle proposte... insomma vista da laggiù, lo dico con dispiacere, la vecchia Europa sembrava malinconica e lontana...

EG: A metà Marzo sei stato in Germania per suonare con il Wild Chamber Trio, assieme a Clementine Gasser ed Elisabeth Harnik, due grandissime improvvisatrici anche sbilanciate su una visione classica della musica per ciò che concerne progetti di partitura tradizionali e grafiche. Qual è il valore aggiunto che avverti in questo trio?

GM: Beh, Wild Chamber è per me speciale. Lo fu dall'inizio dell'avventura, ormai 13 anni fa, quando Elisabeth suonava in un set differente dal mio al Vortex a Londra e dopo il mio set mi chiese: ti va se proviamo a fare musica insieme? Da lì è partito questo viaggio che ha portato al primo disco 10.000 Leaves insieme a Clementine. Il valore aggiunto, mi chiedi... Il valore aggiunto è che sono due musiciste molto aperte, che sanno ascoltare moltissimo e con derivazioni solide e molto consapevoli, veramente posseggono e sono possedute dai loro rispettivi strumenti e da una passione sincera per la musica. Entrambe sono enormemente cresciute in maturità artistica e in skill strumentale. Il concerto di Monaco all'Einstein Kultur per la serie Offene Ohren curata da Hannes Scheider e anche quello all'ArtActs 25 a St.Johann Tirol sono stati davvero eccellenti. È un impianto cameristico selvaggio e raffinatissimo insieme. Io sempre trovo un senso formale pazzesco, una concentrazione altissima. È un trio che richiede di essere sempre in ascolto, l'interplay molto vivace. Suoneremo ancora in Austria a Graz e Klagenfurt il prossimo fine Maggio. Spero tanto di poter portare in Italia questo trio, davvero sarebbe bello.

EG: Un'altra esperienza incredibile è quella del progetto in Giappone con Hashira Yamamoto che include delle affascinanti sorprese. Ci parli di come è nata questa collaborazione e che cosa hai vissuto nei concerti in Giappone?

GM: Il progetto con Hashira Yamamoto ha una declinazione molto particolare che parte da una mia mail. Avevo visto alcune sue fotografie in rete e gli avevo chiesto un'immagine per "Transient" il secondo album del trio Clairvoyance (con Adriano Orrù al contrabbasso e Silvia Corda al pianoforte e al toy piano). Hashira aveva gentilmente acconsentito e anche impiegato la musica di quel disco per insonorizzare la mostra delle sue fotografie in una galleria di Osaka. Il lavoro di Hashira è spesso basato sull'utilizzo di tecniche assolutamente analogiche nello sviluppo e nella stampa. Le sue foto hanno spesso un impianto formale piuttosto tradizionale e tuttavia molto affascinante.

Il suo progetto che raccoglie le immagini scattate lungo un tragitto di tre anni che ha ripercorso la via della seta dalla prefettura di Nara in Giappone fino alla costa atlantica del Portogallo è molto particolare e regala inquadrature dal carattere contemplativo di vari luoghi lungo il cammino, come degli sguardi lanciati dalla propria anima. Hashira ha poi raccolto tutte queste fotografie, incollandole in tre makimono, rotoli di carta di riso lunghi 8 metri ciascuno, interamente assemblati a mano che celebrano questo viaggio d'incanto che accosta immagini provenienti da angoli remoti e silenziosi. In certe immagini sembra di poter ascoltare un vento che le attraversi...Durante una visita in Italia per una sua mostra a Milano, Hashira mi ha lasciato i tre makimono come elementi diciamo così ispirativi... ebbene io ho scelto 7 immagini da queste raccolte e ho incominciato a pensare a delle musiche che ne potessero scaturire.

L'idea ha preso corpo e abbiamo deciso di dare forma al progetto cominciando con una registrazione del mio solo sassofono in un luogo significativo, abbiamo quindi scelto un tempio, il Tachibana-dera di Asuka, nella prefettura di Nara, regione da dove il viaggio di Hashira partì. Grazie a una lunga trattativa con il priore buddhista di questo tempio abbiamo infine avuto il permesso di organizzare una recording session il quel luogo.

Era la seconda volta che tornavo in Giappone, la prima fu nel 2018 per un tour con Satoko Fuji e per alcuni concerti con Yoko Miura. Questa volta, grazie ad Hashira ho avuto modo di approfondire alcune personali curiosità sul Giappone e su un certo semplice equilibrio che sembra attraversare lo sguardo e il pensiero. Il tempio si trova in aperta campagna, i ciliegi erano in fiore, le immagini di Hashira aperte sui tatami e la luce perfetta. Credo che una prima parte di questo progetto abbia ora preso corpo e sono molto curioso di proseguire. La mia intenzione è arrivare a un prodotto misto, immagine e musica, non so ancora se un libro o un altro tipo di pubblicazione, sono ancora in una fase fattiva, ma la materia è davvero ricca.

Sempre in Giappone mi è capitato di trovare un'attenzione e una concentrazione particolare. Il rapporto con il fare artistico ha un peso del tutto diverso, le mie categorie semplicemente scompaiono a vantaggio di una specie di pratica complessiva che coinvolge vissuto quotidiano e musica. Non è facile spiegare come, ma sento di fare bene laggiù... Tornerò, questo è certo, devo affinare alcune strategie ma credo che tornerò presto...

EG: In 60 anni e passa di storia, jazz e libera improvvisazione hanno acquisito un certo status nella formazione degli artisti, soprattutto nei conservatori o nelle scuole di musica i generi sono entrati nei piani di studio degli allievi. Riguardo alla free improvisation, pensi che questo abbia provocato dei cambiamenti nella considerazione dei giovani artisti, che non hanno avuto la fortuna di sperimentare gli anni d'oro?

GM: Sì, credo di sì. Ma è anche un tempo diverso. Io ricordo che uno certo spirito di opposizione animava le mie scelte di gioventù. Ma è sempre auspicabile che nel percorso di formazione si incontrino possibilità di approfondimento e possibilmente insegnanti che sappiano accendere e tenere acceso il fuoco della conoscenza... Tuttavia, anche per ragioni anagrafiche tendo a rimpiangere quello spirito che animò i miei inizi… Bisogna avere domande, non sempre è meglio partire dalle risposte… ecco. Il mio timore è quello di una mancanza di ascolto, di una ricerca, della mancata occasione per creazione di unpantheon personale… insomma i limiti dell’apprendimento scolastico. Naturalmente esistono esempi brillanti, mi vengono alla mente certe esperienze americane o tedesche ad esempio. Ma sempre si tratta, più che di programmi, di capacità di trasmissione, di usare la scintilla per accendere un fuoco più che di chiedere “chi ha un accendino?”

EG: Ti faccio una domanda che tutti vorrebbero fare. Molti si chiedono quale sarà il tuo orientamento musicale dopo che hai chiuso l’Amirani R. e forse il motivo della loro interrogazione sta nel fatto che vorrebbero suonare con te.

GM: Come ebbi a dirti alla chiusura dell’avventura di Amirani Records, ero arrivato ad avvertire un senso di compiutezza. Come fosse tempo di girare pagina, improvvisamente quel sentore era divenuto chiarezza e mi sono detto che poi non era così strano. Le cose, semplicemente, cambiano. La mia idea è di partire con una nuova avventura, forse più personale, documentativa, e magari proprio con il progetto con Hashira Yamamoto come primo passo. Ho anche in mente un nome per questa nuova “cosa”, ma non voglio spingere, credo che verso al fine dell’anno avrò le idee più chiare. 

EG: Tutti sentiamo ancora la mancanza di Gianni Lenoci ma tu lo celebri sempre nei discorsi e nei pensieri e poi la Puglia è certamente uno dei tuoi punti di riferimento in Italia, non solo per le radici familiari. Puoi dirci qualcosa sui tuoi progetti con i musicisti pugliesi. 

GM: Tornerò in Puglia il prossimo mese! Proprio con Ove Volquartz presenteremo questo “Say When” nello studio di Gianni Lenoci, l’album come sai è lui dedicato. Avremo anche intersezioni con Pierpaolo Martino all’Università di Bari, suoneremo a Mola e a Lecce. I miei rapporti con la Puglia e i suoi bravissimi musicisti si sono intensificati moltissimo durante la collaborazione con Gianni. Anche questa volta incontrerò diversi musicisti pugliesi alcuni dei quali hanno pubblicato con Amirani in passato. Per me tornare in Puglia è fare “campo”, è ritrovare amici e collaboratori… che sono tutti molto cresciuti, il tempo passa… spero davvero in un abbraccio con tutti loro.